Castità? Diamo ai preti la libertà di scegliere

Vito Mancuso Intervista all’Adige.it 5 maggio 2018

Sarebbe bene che la Chiesa prendesse coscienza che i tempi sono cambiati. In sintesi, possiamo dire che è questo il pensiero di Vito Mancuso a proposito della regola che la Chiesa impone ai propri sacerdoti sul celibato.

Teologo, docente universitario, scrittore, Mancuso non entra nel merito dei fatti che hanno investito le comunità della Valsugana, ma propone una riflessione sul tema con la saggezza che viene da chi ha approfondito la questione anche dal punto di vista della dottrina e dei testi sacri. E la sua, anche in questo caso, è una posizione che non sembra allinearsi molto a quelle delle gerarchie ecclesiastiche.
«Quando si fanno delle promesse, uno deve essere vincolato a queste – spiega ancora prima di entrare nel merito del tema -. Se uno sente di non poter essere all’altezza di ciò che ha promesso, dovrebbe trarne le conseguenze. Il celibato fa parte delle condizioni d’ingaggio dei preti. Detto ciò, quella del celibato non è una condizione strutturale» …

Cosa significa?

Il sacerdote non è il monaco per cui il voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio. Per i sacerdoti e i presbiteri, che determinano la loro vita nel servizio alla comunità, il nesso con il celibato non è strutturale, ma storico. Nel primo millennio, il celibato dei preti non era obbligatorio. Il Nuovo Testamento parla degli apostoli come uomini sposati e per secoli i preti hanno avuto famiglia. Dal secondo millennio il sacerdozio viene modellato sulla struttura del monaco per la progressiva valutazione negativa della sessualità. C’è un secondo motivo, di ordine più politico: il non avere famiglia, rende i preti più controllabili e si evitano tutti problemi connessi all’eredità dei beni …

Ma oggi ha ancora senso imporre ai parroci il celibato?

La Chiesa nel terzo millennio ha il grosso problema delle vocazioni. In Occidente ci sono pochissimi preti e le vocazioni non sono proprio così splendenti. Molti giovani seminaristi rinunciano alla vita sacerdotale proprio per questa questione. È perciò un nodo gravissimo da sciogliere, il quale è parte determinante del futuro della Chiesa stessa. E siccome il celibato non è strutturale – Gesù ha scelto i propri discepoli tra persone sposate – è arrivato il tempo di discutere sul serio di questo tema se si vuole che il messaggio spirituale della Chiesa continui a vivere.

Secondo lei, Papa Francesco come affronterà la questione?

Nella Chiesa si sta dibattendo intorno ai «viri probati». Uomini, cioè, che hanno una famiglia, che hanno dato prova di una vita esemplare e che, se lo richiedono, possono essere ordinati sacerdote. Uomini scelti tra i laici preminenti che, una volta diventati sacerdote, continuano a mantenere i propri affetti e i propri legami. Cosa farà il Papa? Da quello che posso capire lui vorrebbe portare delle novità, ma non ci sono le condizioni. Visto che non è più tanto giovane e considerati i problemi di opposizione interna, dubito che possa andare oltre all’istruzione del problema…

Perché rimane difficile per la chiesa parlare di sesso?

La sessualità, e non solo nella religione cattolica, rimane un tabù in tutte le religioni, o in gran parte. Per molti vescovi l’idea che un prete possa avere una vita affettiva normale rimane ancora difficile da accettare. Credo che molto dipenda dal tipo di educazione ricevuta. Non vedo altri motivi. Il celibato deve essere una libera scelta. Conosco preti celibi straordinari, di una sensibilità non comune. Ma non penso che la modalità migliore di vivere la consacrazione del proprio tempo sia il celibato. Per qualcuno, questo diventa l’impossibilità di vivere sereni.

Cosa dovrebbe fare la Chiesa?

Riprendere i segni dei tempi e lavorare su due temi: uno, appunto, è quello dei «viri probati», l’altro riguarda il diaconato femminile, che è strettamente collegato. Non ci sono fondamenti biblici che impediscano questo. Sarebbero due segnali che porterebbero ossigeno a una Chiesa che oggi appare come una struttura invecchiata.

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A Modena. Preti emeriti, un tempo presbiteri

di Beppe Manni in “Adista” del 3 giugno 2017

Il vescovo di Modena, don Erio Castellucci, ha incontrato a pranzo gli ‘ex preti’: «Cari amici, vi invito ad un incontro semplice e conviviale, voi che, un tempo presbiteri modenesi, avete poi lasciato il ministero e avete compiuto altre scelte, il più delle volte sposandosi e continuando a servire la Chiesa e il Vangelo con dedizione e competenza. Vi invito ad un momento di scambio seguito dal pranzo in arcivescovado. Potremmo trovarci a mezzogiorno e parlarci con semplicità e senza fretta durante il pranzo. Non ho particolare argomenti da proporre: mi piacerebbe che ci ascoltassimo a vicenda e condividessimo le esperienze vissute. Credo che possa essere di reciproco arricchimento. Vi saluto e spero di potervi incontrare nell’occasione. Don Erio Castellucci». Il vescovo ha chiesto ai presenti di raccontare la loro esperienza. Il prete ex più anziano era stato ordinato nel 1952 il più giovane nel 1987. Hanno esercitato il ministero sacerdotale per 5, 10, 20 anni e più, in contesti diversi. Tutti hanno faticato ad abbandonare il loro ruolo di prete e ad inserirsi nella realtà sociale e lavorativa. Si sono progressivamente liberati del ruolo di prete e hanno costruito una nuova identità laica, più autentica; ritrovando una fede più vera e personale, e la bellezza di stare con “amore” in mezzo alla gente che conosceva e apprezzava le scelte compiute. Hanno scoperto una nuova serenità nata dalla maturità affettiva, religiosa e professionale. Molti si sono inseriti nelle realtà parrocchiali e diocesana come catechisti, formatori, organizzatori o consiglieri dei parroci; come insegnanti di religione nelle scuole; come operatori culturali nella città. Oppure hanno trovato un ruolo in una Comunità di Base. La maggiore disponibilità di tempo e la nuova esperienza, hanno permesso di approfondire gli studi biblici e teologici in un contesto di maggiore libertà. Non sembravano interessati a riprendere un ruolo “clericale”. Hanno lamentato il disinteresse ufficiale della gerarchia e della chiesa, ma hanno riconosciuto l’eccezionalità dell’invito del vescovo che non voleva avvicinare “il figliol prodigo” ma era mosso dal desiderio di ascoltare. Don Erio infatti ha molto ascoltato. Le porte si stanno schiudendo, ha detto, anche grazie al papa che pur senza cambiare le antiche regole ha aperto delle finestre; la Chiesa cattolica di Oriente ha i preti sposati e già dal tempo di Vojtyla sono stati accolti sacerdoti anglicani sposati “convertiti al cattolicesimo”. «Oggi per molte parrocchie non possiamo garantire un parroco, molti preti stranieri chiedono di venire a lavorare da noi, ma preferisco, attraverso la ristrutturazione delle aree pastorali, coinvolgere non solo i preti ma anche i laici, per declericalizzare sempre di più le parrocchie e superare la divisione tra sacro (il prete) e il profano (il laico); è importante non solo assicurare una messa, ma la presenza pastorale e l’evangelizzazione; una famiglia presente nella canonica potrebbe diventare un importante punto di riferimento per tutta la comunità. Vi chiedo di aiutarmi a capire di più la realtà diocesana attraverso il vostro punto di vista, arricchito dalla vostra esperienza di confine». Don Erio ha poi dichiarato: «L’incontro con un gruppo di persone che hanno svolto il ministero presbiterale, è stato per me particolarmente ricco; il clima era molto costruttivo, le riflessioni erano filtrate da esperienze a tratti dolorose ma sempre vissute con autenticità; i presenti hanno detto che spesso il loro vescovo ha saputo accogliere e accompagnare la decisione di sospendere il ministero. In alcuni casi però, la decisione ha creato imbarazzo e ha generato un certo isolamento rispetto agli altri preti. Io credo che sia importante ascoltare coloro che hanno speso anni di vita nel ministero e che ora li spendono nella vita laicale, perché possono offrire a tutta la comunità la testimonianza di come il Signore sostenga e accompagni anche nei “fallimenti” e aiuti a mettere a frutto in altro modo i doni di ciascuno».

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La messa è finita

di Alberto Melloni, in “la Repubblica” del 22 marzo 2017

Alcuni grandi cicli storici si chiudono con eventi fragorosi. Altri cicli, invece, si chiudono quasi in sordina, pur non essendo meno importanti di quelli ai quali un monumento o una riga di sussidiario fornisce eterna gloria. In sordina si è esaurito un grande ciclo: quello del prete. Quella formidabile invenzione cinquecentesca che ha plasmato la cultura e la politica, la psicologia e la vita interiore, l’arte e la teologia dell’Occidente e delle sue antiche colonie non si è estinta (sono circa 420mila i preti nel mondo), ma da oltre un secolo è in crisi: in Italia siamo passati in novant’anni da 15mila a circa 2.700 seminaristi. Certo hanno peso alcuni fattori estrinseci: domani il disdoro della pedofilia che nella lente dei media fa apparire quel delitto come specifico del prete; ieri la pigrizia delle autorità nel discutere del celibato ecclesiastico; oggi la simonia soft che remunera regalando episcopati-premio a chi “fabbrica” preti o numerosi o vistosi. Conta in questa fase storica il riverbero sul clero della caduta della qualità intellettuale delle classi dirigenti alle quali appartiene sia chi sceglie il sacerdozio che chi glielo conferisce. Ma la questione si incunea più profondamente nella storia.

Il prete che abbiamo conosciuto ha una data di nascita precisa: il concilio di Trento che si chiuse nel 1563. E l’enorme sforzo con cui esso cercò di segnare una cesura (contestata dai protestanti che invece accusavano la chiesa cattolica di continuità con l’abuso) a valle della riforma di Lutero. Tardi, ma con coraggio il concilio cercò di inventare farmaci sconosciuti: ad esempio impose ai vescovi la residenza in diocesi, impedendo loro di bazzicare la corte papale. E inventò il prete: quello preso in giro dalla letteratura e dal cinema, l’uomo reso saggio solo dagli insuccessi, santificato dalla pesantezza istituzionale di ciò a cui si dà. Il prete che non ha figli da crescere, il prete con un ciclo di studi standard e lunghissimo, il prete che porta i proletari a diventare classe dirigente, il prete che interpreta la “suprema lex salus animarum” che è la misericordia. Questo “prete tridentino” sembra attraversare la svolta della modernità senza danni: anzi la nascita dei nuovi ordini e società di preti dell’Ottocento, e lo zelo nel fare seminari grandi come fabbriche, sembrano garantire che la sua funzione resti intatta dentro lo stesso guscio istituzionale e teologico. Ma non è vero: la chiesa che si arrocca a difesa del proprio recinto ne fa un funzionario il cui profilo interiore si usura nel controllo sociale. Lo scrutinio della coscienza di una umanità di cui non ha esperienza ne indebolisce la compassione. La sua antica scienza comparata a trasmissioni del sapere sempre più sofisticate, ne fa un sotto-acculturato. Lo zelo ecclesiastico nel condannare tutto ciò a cui si può attaccare il suffisso “ismo”, ne impoverisce le letture e lo rende estraneo ai “suoi”, che diventano di colpo “lontani”. La perdita di ruolo e l’incuria affettiva lo espone al peggio: fino alla svenevole esaltazione del celibato che intrappola le sessualità in cerca di sublimazione e attira nel presbiterato persone irrisolte o addirittura malate. La sua qualifica diventa il nome di un vizio mai combattuto abbastanza: il clericalismo. E nella storia europea recente il mestiere di prete viene appaltato, come le mansioni marginali, a chierici d’importazione, eletti a badanti di comunità abbandonate. Perfino la discussione sulla donna-prete (dimenticando che il “sacerdozio” che si riceve col battesimo le donne lo hanno già, e che non è poco) si mescola pericolosamente alla logica tutta maschilista che concede all’altro genere i mestieri diventati obsoleti.

Il calo quantitativo delle ordinazioni disegna da due secoli una curva calante davanti al quale si chiudono gli occhi, specie quelli che stanno sotto una mitria episcopale. Ci sarebbe infatti bisogno e perfino urgenza di ripensare il prete partendo proprio dall’eucarestia e dalla comunità, e non da dettagli di vita o di genere. Ma di questo, però, sembra impossibile parlare, anche nell’ultimo mezzo secolo.

Non ne ha parlato il Vaticano II che si è limitato a tentare di togliere al prete quel tono semi- monastico che aveva. Non il papato che si limita a confezionare una poetica del prete. Non ne parlano i vescovi che impacchettano le comunità in quelle che in Italia si chiamano “unità

pastorali”, e condannano i preti a diventare funzionari affannati, travolti da una poligamia comunitaria in cui nessuno vuol loro bene e loro non riescono a voler bene, col rischio di diventare santi o naufragare su scogli erotici non sempre candidi.
È cosa così grave che non ne parla neanche papa Francesco. Il prossimo sinodo, infatti, ha un tema general-generico come quello dei “giovani”: quasi che perfino l’infaticabile papa riformatore avesse voluto cercare una pausa alle polemiche. E se l’enciclica prossima come si dice sarà sulla religiosità “popolare” avrà anch’essa lo stesso limite. D’altronde la decisione più significativa del pontificato, quella contenuta in Evangelii Gaudium, non è stata ancora recepita dai vescovi: è quella che afferma che le conferenze episcopali hanno «autentica autorità dottrinale ». Toccherebbe dunque ai vescovi episcopati sollevare un tema sul quale si gioca la vita delle loro chiese: ma l’indolenza prevale, incoraggiata dalla speranza che la riforma domani abbia lo stesso coraggio di quella che “inventò il prete”. Figura che mentre svapora accende i ricordi e i rimpianti di credenti, ex credenti e non credenti.
Non ci sono solo le vocazioni in calo, è il ruolo del sacerdote a declinare
Tra burocrazia e solitudine

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Ordinazione di uomini sposati al ministero presbiterale

di Jean Rigalin “www.baptises.fr” del 15 marzo 2017 (traduzione: http://www.finesettimana.org)

In seguito a un’intervista a papa Francesco, si ripropone la questione dell’ordinazione presbiterale di uomini sposati. Non è una novità, ma la diminuzione brutale del numero dei preti, almeno in Occidente, le dà un nuovo rilievo.
Occorre ricordare un principio di base: nessun impedimento dogmatico si oppone a tale ordinazione, come prova la pratica della Chiesa nel corso dei secoli, e oggi quella delle Chiese d’Oriente unite a Roma. In altre parole, è essenzialmente una questione di opportunità pastorale. Nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino scriveva: “Dio non abbandonerà mai la sua Chiesa al punto che non possa trovare ministri qualificati in numero sufficiente per provvedere alle necessità dei fedeli”. Papa Francesco si inserisce in questa apertura quando dichiara prudentemente che una riflessione a questo proposito “potrebbe essere utile”.

Il riproporsi della questione non rimette in discussione il significato del celibato per i preti, in quanto dà un volto al Cristo, il Buon Pastore, interamente dedicato al servizio dell’Evangelo. Ma bisogna ricordare che è importante distinguere l’esercizio del ministero da uno stato di vita determinato (nello specifico, quello di celibe o di sposato), anche se lo stato di vita dà per forza un certo tono all’esercizio del ministero.

L’appello al diaconato permanente per uomini celibi o sposati è diventato realtà. Perché non pensare ad una procedure analoga per il presbiterato in rapporto a dei “viri probati”, cioè a degli uomini “che hanno la loro esperienza”. Un tentativo potrebbe essere fatto e poi valutato sotto la responsabilità delle conferenze episcopali, tenendo conto del contesto locale, diverso a seconda delle regioni. Sarebbe un ritorno all’antica tradizione. Non vi vedo una “soluzione miracolo”, anche perché mi sembrano più importanti e profonde le questioni riguardanti la fede nel nostro mondo secolarizzato.

Questa pratica porterebbe a definire un profilo diverso di prete, e a prevedere una formazione adeguata, che dovrebbe essere studiata e definita, come per il diaconato permanente.
Mi sembra importante che questa apertura sia attenta alla missione specifica di queste nuove forme di ministero. Conosciamo il pericolo di ordinare preti solo “per la messa”, al di fuori di ogni prospettiva ecclesiale e missionaria. Il ministero dei preti è fondamentalmente una funzione pastorale che include formalmente la presidenza eucaristica, ma va anche al di là. Presiedere alla costruzione della Chiesa è allo stesso tempo servire la dimensione profetica, liturgica e missionaria nel mondo così com’è. Il servizio della Parola di Dio e la celebrazione dei sacramenti sono luoghi privilegiati della “comunione ecclesiale”. Ordinare preti solo per “dire delle messe” riflette una misera concezione dell’eucaristia e del ministero.
“Dei preti per che cosa?”, è, a mio avviso, ciò che ci dobbiamo chiedere prima di tutto.

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Il dibattito sul celibato

di aradejin “www.kath-kommentar.de” del 17 marzo 2017 (traduzione: http://www.finesettimana.org)

La Conferenza episcopale tedesca ha discusso sul celibato dei preti. In internet sono circolate opinioni diverse, dall’ipotesi che il celibato potesse essere soppresso, alla possibilità che cosiddetti “viri probati” potessero essere ammessi all’ordinazione. Il dibattito sul celibato non è sorto solo recentemente, è stato presente nella storia della Chiesa fin dal 304 dopo Cristo.

Celibato o astinenza sessuale?

Diaconi, preti, vescovi e altri chierici avevano, prima dell’ordinazione, la possibilità di contrarre matrimonio. Nella prima grande discussione sul matrimonio dei componenti del clero non si discuteva sul celibato, ma ci si chiedeva se i preti dovessero vivere in astinenza. Nel Sinodo di Elvira nel 306 si decise per l’astinenza del clero. Il Sinodo chiedeva ai preti, ai vescovi e ad altri componenti del clero l’astinenza sessuale.

Il passo era ritenuto necessario per garantire la purezza del culto. Decisivo era che i preti potessero celebrare da puri la liturgia senza contaminazione del culto, affinché l’azione di Dio potesse dispiegarsi in maniera speciale.
Solo nell’Alto Medioevo si hanno notizie della discussione sul celibato. Nel 1022, papa Benedetto VIII e l’imperatore Enrico II decretarono il celibato dei chierici. Nel 1139, papa Innocenzo II dichiarò che il celibato valeva per tutto il clero del mondo. Il celibato aveva una motivazione analoga all’astinenza: i chierici dovevano mantenere la purezza del culto. Essendo prevista la celebrazione quotidiana di liturgia, un chierico doveva sempre essere pronto per la celebrazione. Da non sottovalutare è anche l’argomento relativo alla trasmissione ereditaria della proprietà dei chierici. C’era la preoccupazione che i preti sposati trasmettessero la proprietà della chiesa ai loro figli. Ai preti già sposati furono quindi tolti la funzione e la proprietà, e le trasgressioni al celibato furono perseguite con pene pesanti.

La nuova disposizione del papa incontrò poca simpatia. In Germania si giunse a forti proteste durante le comunicazioni ufficiali. In particolare i chierici delle classi inferiori si ribellarono contro la nuova disposizione. Il vescovo di Passau, ad esempio, sfuggì a malapena, durante l’annuncio, al clero inferocito.
Nonostante tutte le proteste, l’introduzione del celibato fu attuata e divenne presupposto per l’ordinazione presbiterale.
Possibilità di sposarsi?
Nel corso del tempo si verificarono nella Chiesa degli avvenimenti per i quali si rese necessario un compromesso sulla tematica del celibato. L’unione con le Chiese cattoliche d’Oriente come la Chiesa melchita o ucraina, mise in discussione il celibato. Nella tradizione bizantina del cristianesimo, i preti sposati sono una normalità.
Fino ad oggi, prima dell’ordinazione, i candidati preti possono sposarsi, ma solo nella Chiesa cattolica d’Oriente e solo nel paese della Chiesa rispettiva. Così i cristiani uniati cattolici in Ucraina, se appartengono alla chiesa cattolica d’Oriente, possono sposarsi.
Ci sono anche diverse dispense. La prima dispensa riguarda i preti convertiti provenienti dalla Chiesa anglicana o protestante. Se erano preti sposati prima della conversione, sia il matrimonio che l’ordinazione continuano ad essere validi. Così si è cominciato ad avere una piccola quota di preti cattolici sposati. Con la seconda dispensa, il papa ha il diritto di permettere ad un aspirante cattolico al presbiterato il matrimonio e l’ordinazione. Ma questo avviene in pochissimi casi.
Il dibattito
Gli attuali modelli esplicativi del celibato sono piuttosto insufficienti e sono nati dall’Alto Medioevo sulla base di un sostegno teologico carente. Un argomento è che Cristo visse da celibe e che non ci sono indicazioni univoche nella Sacra Scrittura che Cristo abbia avuto una moglie. Un secondo argomento deriva dal versetto del Vangelo di Matteo 19,12. Qui Gesù parla del celibato come di un dono di Dio che deve essere usato per giungere alla pienezza, poiché alcuni uomini per volontà di Dio si sono destinati al celibato.

Non c’è alcuna spiegazione convincente univoca per il celibato. Ha la sua utilità nel mantenimento della purezza cultuale e della raggiungibilità nel servizio presbiterale.

I sostenitori del celibato non vedono neppure alcun motivo per la sua revoca poiché in definitiva il numero delle ordinazioni presbiterali non aumenterebbe in maniera durevole. Lo si vede nella Chiesa protestante che ha dovuto anch’essa fare i conti con una stagnazione delle ordinazioni. Tralasciamo di considerare che ci possono essere altri problemi che riguardano la Chiesa protestante che potrebbero essere il motivo per le sue scarse ordinazioni.

L’ordinazione di “viri probati”, di diaconi con esperienza sarebbe una tappa intermedia. Prima si permette il passaggio da diaconato a presbiterato e si prova questa forma di vita. Da un lato si può vedere concretamente quanti diaconi permanenti userebbero la possibilità di assumere la funzione di presbitero. Dall’altro lato si potrebbe esaminare se le condizioni di vita di un prete siano compatibili con il fatto di essere anche marito e padre di famiglia.

Infine, l’ammissione al presbiterato di “viri probati” revocherebbe il dovere del celibato e permetterebbe un celibato liberamente scelto da parte dei preti. Poiché non ci sono dimensioni né teologiche né di diritto canonico a che impediscano che i preti possano essere sposati, il cambiamento realtivo al celibato sarebbe una decisione amministrativa della Chiesa.
Le Chiese ortodosse non trovano inadeguata la presenza di chierici sposati, considerano invece il celibato come una differenza necessaria tra monaci e preti. Nella Chiesa cattolica i preti sposati sono già accettati in misura minore. Lo mostrano le Chiese di rito orientale in comunione con la Chiesa cattolica.

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Vincoli e affetti di presbiteri e persone consacrate

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Articoli sul giornale del Vaticano ripropongono l’idea che le donne dovrebbero predicare durante la messa

di David Gibson in “ncronline,org” del 2 marzo 2016 (traduzione: http://www.finesettimana.org)

Alcuni articoli sul giornale semi-ufficiale del Vaticano sollecitano la Chiesa cattolica a permettere alle donne di predicare dal pulpito durante la messa, un ruolo che è stato riservato quasi esclusivamente al presbiterato – che è solo maschile – per quasi 800 anni.
“Il tema è delicato, ma ritengo sia urgente affrontarlo” ha scritto nel suo articolo sull’Osservatore Romano Enzo Bianchi, a capo di una comunità religiosa ecumenica nel nord dell’Italia e conosciuto commentatore cattolico.

“Certamente per i fedeli laici in generale, ma soprattutto per le donne, ciò costituirebbe infatti un mutamento fondamentale nella forma di partecipazione alla vita ecclesiale”, scrive Bianchi, che ha definito questa riforma un “percorso decisivo” per rispondere ai richiami diffusi – anche da papa Francesco – per trovare i modi di dare alle donne un ruolo maggiore nella Chiesa.

Anche due suore hanno contribuito con i loro articoli nella sezione speciale di marzo dell’Osservatore Romano, sezione dedicata alle donne e chiamata “Donne-Chiesa-Mondo”.
Nel suo intervento, Suor Catherine Aubin, una domenicana francese che insegna teologia in una università pontificia a Roma, fa notare che Gesù incoraggiava le donne a predicare il suo messaggio di salvezza, e che nel corso della storia della Chiesa ci sono state molte donne straordinarie evangeliste. Anche oggi vi sono donne che guidano ritiri e che predicano di fatto in altri modi, afferma.
“Poniamoci sinceramente una domanda allora”, scrive Aubin, “Perché le donne non possono predicare davanti a tutti durante la celebrazione della messa?”
Un’altra domenicana, Suor Madeleine Fredell, svedese, ha scritto: “Predicare è la mia vocazione come domenicana, e sebbene possa farlo quasi ovunque, talvolta perfino nella chiesa luterana, sono convinta che ascoltare la voce delle donne al momento dell’omelia arricchirebbe il nostro culto cattolico”.
Se un simile cambiamento ci fosse, sarebbe un mutamento contrastato.
Nei primi tredici secoli, nel movimento verso il consolidamento del potere ecclesiastico nel papato e nel clero, papa Gregorio IX effettivamente proibì ai laici – cioè ai non ordinati, sia donne che uomini – di predicare, specialmente su temi teologici o dottrinali che erano considerati temi riservati al clero istruito.
Furono poi ammesse eccezioni occasionali, ma si dovette arrivare fino all’inizio degli anni 70 del secolo scorso per trovare accenni a riconsiderare il divieto, incoraggiati dalle richieste crescenti che anche le donne – e tutti i laici – assumessero maggiori ruoli e responsabilità nella Chiesa. Nel suo articolo, Bianchi nota che nel 1973 il Vaticano diede ai vescovi tedeschi l’autorizzazione a permettere a dei laici, molti dei quali donne, a predicare con uno speciale permesso per un periodo sperimentale di otto anni.
Ma l’elezione di San Giovanni Paolo II, un papa conservatore sul piano dottrinale, nel 1978 fu l’inizio di un periodo di divieti più severi.
Il Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983 da Giovanni Paolo II stabiliva che l’omelia “è riservata a un prete o a un diacono” (c. 767) perché è parte integrante della messa e deve essere fatta da un maschio ordinato che agisce “in persona Christi”.
Poi nel 1997 un documento Vaticano supportato da otto diversi uffici della Curia Romana cercò di rafforzare ulteriormente il divieto della predicazione di laici; esso avvertiva inoltre i vescovi che non potevano permettere alcuna eccezione.
Tuttavia, nello stesso periodo in cui il Vaticano rafforzava la distinzione tra laici e clero, i laici – molti di loro donne – svolgevano un ruolo più visibile nella messa come lettori e ministri dell’eucaristia. Le ragazze erano ammesse come chierichette, una pratica molto diffusa.

Quei cambiamenti hanno portato diversi conservatori a condannare la “femminizzazione della Chiesa cattolica, e qualsiasi proposta seria di permettere alle donne di predicare aumenterebbe certamente la loro preoccupazione.
L’argomento a favore del cambiamento è che non si tratta di “modernizzare” la Chiesa, ma piuttosto di tornare alla tradizione dei primi mille anni di cristianesimo, quando, come Bianchi e gli altri interventi fanno notare, alle donne era regolarmente dato il permesso di predicare, e spesso lo facevano di fronte a preti, vescovi e perfino al papa.

Maria Maddalena, infatti, era conosciuta come “apostola degli apostoli”, perché i Vangeli raccontano come Gesù apparisse a lei per prima la mattina di Pasqua, e mandasse lei a comunicare la notizia della resurrezione – elemento fondamentale della fede cristiana – ai seguaci maschi di Gesù.
Allora, che cosa farà Francesco?
Il pontefice ha ripetutamente invitato a far sì che le donne abbiano un ruolo più attivo nella Chiesa, ma ha anche ribadito il divieto di ordinare donne al presbiterato e ha messo in guardia dalla “clericalizzazione” delle donne nel tentativo di farne dei cardinali o di focalizzarsi sulla loro promozione a incarichi superiori nella Chiesa.
Ma che il giornale del Vaticano dedichi tanto spazio al problema della predicazione delle donne è interessante, ha detto Massimo Faggioli, storico della Chiesa presso l’Università St. Thomas nel Minnesota.
“Penso che sia un grande segnale”, ha detto.

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Il sogno di una chiesa diversa

di Aldo Maria Valli in “www.aldomariavalli.it” del 3 marzo 2016

Umiltà, povertà, spirito evangelico. I richiami di Francesco in questo senso sono continui. E li rivolge prevalentemente ai chierici, spesso ai vescovi. Se lo fa, vuol dire che la Chiesa, specie nei suoi vertici gerarchici, è malata. Malata di superbia, sfarzo, ricchezza, mancanza di spirito evangelico. Ma siamo sicuri che i richiami bastino?

Don Vinicio Albanesi, nel libro Il sogno di una Chiesa diversa. Un canonista di periferia scrive al Papa (Áncora, 112 pagine, 14 euro), sostiene che l’umiltà e la povertà, anche quando vengono applicate e realizzate, non bastano più. Occorre la riforma del sistema.

Non solo le persone devono ispirarsi al Vangelo, ma anche l’organizzazione. L’appello a un comportamento evangelico non può avvenire continuamente in opposizione alla struttura. Occorre rivedere in senso evangelico lo schema strutturale dell’organizzazione della Chiesa.

Don Vinicio, responsabile della Comunità di Capodarco, che conta quattordici comunità residenziali sparse in dieci regioni, parla da prete di strada, abituato al confronto duro con la realtà. Ma parla anche da canonista (è docente di diritto canonico e vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico delle Marche): una doppia prospettiva che gli consente di dare giudizi accorati ma mai generici.

Prendiamo il problema del distacco tra apparato ecclesiastico e fede delle persone. I due mondi, denuncia don Vinicio, sono distanti. L’apparato è lontano, estraneo, diffidente, se non oppositivo, rispetto a quanto le persone vivono ogni giorno. Ma, anche qui, i richiami alla buona volontà dei singoli non sono sufficienti. Il problema va affrontato mettendo mano alla struttura. Il diritto della Chiesa trasuda di clericalismo, maschilismo e autoritarismo. I contenuti della legge ecclesiastica sembrano preoccuparsi solo della vita del clero. I laici sono presi in considerazione in modo marginale e quasi come sudditi.

Nel Codice di diritto canonico c’è un’attenzione ossessiva alla questione della potestà: chi comanda e come. Di qui l’autoritarismo. Il papa Francesco fa sentire la sua voce contro carrierismo e arrivismo, e fa bene. Ma il problema è strutturale. E accanto all’autoritarismo c’è il burocraticismo. L’attenzione è tutta per la norma, non per la persona. La coscienza non è coinvolta. Lo spirito evangelico sembra una cosa estranea.

La comunione non ha luoghi in cui esprimersi, e così la collegialità episcopale. Lo schema è autoritario e gerarchico. E chi pone il problema viene guardato come pericoloso contestatore che pretende di portare la democrazia nella Chiesa. La Chiesa, si risponde, non è realtà politica! E così si chiude ogni possibilità di discussione.

La verità, sostiene don Vinicio, è che il sistema, così com’è, è fatto per garantire l’uniformità, non la libertà e l’unità.

E vogliamo parlare della commistione tra sacro e profano? Le domande di don Vinicio sono pressanti. Perché il papa deve essere capo di Stato? Che cosa c’entra il ruolo politico con il Vangelo? Perché la Santa Sede deve avere ambasciatori, i nunzi, come uno Stato? Perché la Chiesa cattolica deve stipulare concordati con il potere politico, entrando in una logica di do ut des che inevitabilmente la lega ai potentati? Si dice che questi meccanismi garantiscono la libertà. Ne siamo certi? Non garantiscono forse qualcosa d’altro: entrate economiche, privilegi, compromessi?

Tutto da rivedere anche il quadro per ciò che concerne la gestione di denaro e ricchezze. La storia ci dice che gli appelli all’onestà e alla trasparenza, per quanto nobili, sono ininfluenti. Il problema, ancora una volta, sta nelle strutture. Solo la riduzione drastica delle funzioni civili (pensiamo alle nunziature) ed ecclesiali (le varie curie) può permettere una riduzione dei costi e un allontanamento

reale della Chiesa dalla ricchezza e dalle tentazioni. Non si possono condannare, giustamente, le speculazioni finanziarie e nello stesso tempo mantenere un sistema che ne ha bisogno per alimentare se stesso.

Quale Chiesa vogliamo? Questa è la vera domanda. Secondo don Vinicio, già autore di un altro libro istruttivo e coraggioso come I tre mali della Chiesa in Italia, oggi, a ogni livello, la Chiesa appare ed è un apparato che ha molto a che fare con le norme, con le leggi, e poco o nulla con lo Spirito. Abbiamo una visione di Chiesa distorta. Diciamo Chiesa e pensiamo a una piramide, a un sistema gerarchico, dominato dall’ossessione della potestà: la Chiesa come struttura che gestisce e amministra il potere. E il Vangelo dov’è?

Bisogna avere il coraggio di introdurre la riflessione sulla natura della Chiesa. Se lo si fa, ci si accorge che gran parte delle strutture non hanno nulla a che fare con Gesù e il suo Vangelo. Sono realizzazioni umane, incrostazioni storiche, meccanismi mutuati dalla società civile e politica.

In quanto società umana la Chiesa ha certamente bisogno anche di regole. Ma oggi la regola prevale sullo Spirito e sembra allontanare la persona e le comunità da Dio. Le regole nella Chiesa hanno senso solo se favoriscono l’incontro con Dio. C’è bisogno di un grande lavoro di semplificazione, e c’è bisogno di mettere al primo posto non lo strumento (la norma), ma il fine (l’avvicinamento a Dio).

Il modello di Chiesa andrebbe ripensato completamente. Da gerarchico, normativo e chiuso dovrebbe diventare spirituale, leggero, aperto. Senza questo ripensamento anche le più nobili esortazioni di un papa come Francesco sono destinate a incidere solo superficialmente.

Una Chiesa ossessionata dalla questione della potestà e delle funzioni è una Chiesa debole, che in fondo ha paura. E’ la paura che la spinge a dotarsi di questa struttura pesante e clericale.

Da dovei può venire il cambiamento? Non dai soli appelli, ma da un ripensamento profondo dell’idea di Chiesa. E dall’apertura ai laici. Oggi il laico è guardato in fondo con sospetto dalla struttura clericale. Bene che vada, lo si considera uno strumento utile per svolgere alcune funzioni di servizio. E’ un collaboratore, un subordinato. Non è una risorsa, non lo è pienamente. Anche del laico, in fondo, si ha paura. Ci si fida solo dei laici clericalizzati. Non si capisce che una maggiore presenza dei laici, e un loro maggiore coinvolgimento, garantirebbe al chierico, a tutti i livelli, di limitare il rischio della chiusura e del clericalismo. E’ il laico che apre al mondo. E’ il laico che porta il mondo nella Chiesa, che mette a confronto i mondi, che permette di fare i conti con la realtà.

La questione del ruolo dei laici porta con sé quella del sacerdozio comune. Nonostante il Concilio Vaticano II, oggi pensiamo alla Chiesa come gerarchia (la piramide) e non come comunità di battezzati uguali. Ha voglia il papa Francesco di ricordare che nella Chiesa non ci sono differenze! In realtà tutta l’organizzazione privilegia la differenza a scapito dell’uguaglianza. Abbiamo una radicata visione di Chiesa che ignora totalmente il fatto che ogni battezzato, in quanto tale, partecipa alla triplice funzione di insegnare, santificare e governare.

In conclusione, Il sogno di una Chiesa diversa è una lettura altamente consigliabile.

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Un giorno lungo un anno per il coraggio delle donne

di Michela Marzano in “la Repubblica” del 25 novembre 2015

Da quando, nel 1999, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenze contro le donne”, ogni 25 novembre le iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di questo dramma sono moltissime.
Incontri, convegni, concerti ed eventi di ogni sorta sono organizzati in tutto il mondo. Tutti sembrano unanimi nel condannare questo fenomeno che continua a mietere vittime innocenti — quasi sette milioni secondo gli ultimi dati Istat. Tutti sembrano disposti a impegnarsi e a moltiplicare gli sforzi per contrastare e ridurre le violenze di genere e le discriminazioni. Come però ha recentemente dichiarato Michelle Bachelet, vice segretario generale e direttore esecutivo di “UN Women”, finché ci si limiterà a punire i colpevoli senza impegnarsi anche in serie politiche di prevenzione, non si riuscirà ad affrontare il problema con i dovuti strumenti. «Occorrono cambiamenti culturali per smettere di guardare alle donne come cittadine di seconda classe», ha ricordato Michelle Bachelet, insistendo anche sull’importanza dei modelli femminili proposti alle più giovani e ai più giovani.
Ma come si fa a insegnare il rispetto di tutte e di tutti quando si continua a vivere in una società in cui le differenze vengono ancora percepite come difetti e in cui ci si illude che la dignità di ognuno dipenda da quello che si realizza o meno nella vita e non da quello che si è, ossia “persone”, tutte uguali e tutte degne indipendentemente dal sesso, dal genere e dall’orientamento sessuale? Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell’accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata?
Il problema delle violenze di genere non è solo un’urgenza, qualcosa di cui ricordarsi solo quando si è di fronte all’ennesimo dramma o in occasione del 25 novembre. È anche e soprattutto un fenomeno strutturale, la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d’oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche e soprattutto le relazioni intersoggettive. Per cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano ancora di potersi comportare come “padroni” e non sopportano che le donne, “oggetti di possesso”, possano diventare autonome; in parte insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, le accusano di mettere in discussione la propria superiorità; in parte narcisisticamente fratturati, pretendono che le donne li aiutino a riparare le proprie ferite.
Un problema identitario, quindi, che si trasforma poi in un problema relazionale e che, ancora troppo spesso, sfocia nell’odio e nella violenza. Un odio e una violenza che non si potranno combattere efficacemente fino a quando non si capirà che il problema comincia nelle famiglie e nelle scuole e che, per affrontarlo seriamente, si deve ripartire dall’educazione dei più piccoli. Le donne non sono “inferiori”, “sottomesse” e “irrazionali” per natura, esattamente come gli uomini non sono “superiori”, “padroni” o “razionali”. Le donne e gli uomini sono certo diversi, ma la diversità non è mai sinonimo di disuguaglianza. Anzi. È sempre e solo nella diversità che l’uguaglianza e il rispetto reciproco possono essere promossi.
Ormai siamo consapevoli che l’aggressività e il senso del possesso sono parte della natura umana. Sappiamo che nessuno di noi è immune dall’odio e dall’invidia e che non si potrà mai definitivamente eliminare l’ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Ma abbiamo anche capito che la violenza, se non la si può cancellare, la si può almeno contenere e prevenire. Avendo il coraggio di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse e le banalità di cui, ancora oggi, sono impastati i rapporti tra gli uomini e le donne. Decostruendo e ricostruendo la grammatica delle relazioni affettive. Distinguendo l’amore — che regala ad ognuno di noi la libertà di essere noi stessi — dalla gelosia possessiva che obbliga l’altra persona ad occupare esattamente quel posto lì, quello che le abbiamo preparato, quello che non può disertare, nemmeno quando ha deciso di andarsene via.
È solo imparando a convivere con la frustrazione e la mancanza che si potrà poi insegnare ai più piccoli che le donne non sono né “oggetti” a disposizione per colmare il proprio vuoto né “cose” di cui ci si possa impossessare e talvolta distruggere.

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FRANCIA: ALMENO SMETTIAMOLA CON LE CHIACCHIERE

di Fulvio Scaglione in Famiglia cristiana del 15/11/2015

15/11/2015  Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali.

Un biglietto di cordoglio sul luogo della strage, a Parigi (Reuters).

Un biglietto di cordoglio sul luogo della strage, a Parigi (Reuters).

E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava.

Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci,grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush,ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.

Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa.

Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità.

Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.

Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.

Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia.

Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.

Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.

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